Un lettura di Melancholia (2011) di Lars von Trier

Luigi Milardi
9 min readOct 12, 2020

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Melancholia è un trattato di filosofia morale in forma di poema epico allegorico.

Overture: sulle note del Preludio e morte di Isotta un enorme pianeta si avvicina alla Terra con l’eleganza propria delle dimensioni siderali. Lo spettacolo visto dallo spazio è mozzafiato: le due sfere gravitano a distanza come in un corteggiamento romantico per poi sfiorarsi in una collisione grandiosa. La Terra è oscura mentre l’altro astro brilla di luce propria. I due corpi celesti si fondono come in un amplesso, dando vita al magnifico e fecondo spettacolo della fine. La morte getta una nuova luce sulla vita oscura.

Nei primi 8 minuti l’autore danese da al direttore della fotografia Manuel Alberto Claro la possibilità di superare se stesso creando mirabili trompe-l’œil che da soli giustificherebbero l’esistenza del film.

Lars apre le danze (della morte) citando Solaris di Tarkovskij, ma tra i registi di riferimento (la geografia forse conta qualcosa) dobbiamo aggiungere almeno Ingmar Bergman, Stanley Kubrick e Rainer Werner Fassbinder.

La prima delle due cantiche di cui è composta l’opera gravita su Justine.

Justine è una giovane e bella ragazza in procinto di sposarsi. Ma la dissonanza tra forma e vita si manifesta già dalle prime scene, quando l’enorme limousine che trasporta gli sposi non riesce ad infilarsi in una curva del viale che conduce al banchetto nuziale. La raffinata tecnologia umana si rivela distante, sproporzionata e inadatta a risolvere semplici problemi logistici, inadatta ad accompagnare Justine a destinazione.

La sposa è quindi costretta ad arrivare alla meta (il luogo fisico è il castello di Tjolöholm, ma il tragitto può anche esser letto come percorso gnostico) camminando sulle sue gambe, e al traguardo l’epifania è immediata: vede la verità di Melancholia.

Justine ha la visione interiore di una realtà terrificante: non solo la sua vita e quella dei suoi cari è destinata a finire, ma l’intera esistenza non ha significato.

Justine è il massimo compimento della cultura occidentale, ha quanto ogni borghese può desiderare: ricchezza, amore, carriera, ma tutto questo è superfluo se a mancare è una vera ragione per vivere.

Giunti a destinazione il ricevimento può iniziare e svolgersi come pianificato da Claire, la sorella della sposa.

Amici e familiari hanno tutti a cuore l’umore di Justine; le chiedono continuamente se è felice, perché non esserlo il giorno del suo matrimonio sarebbe più di una mancanza di rispetto: sarebbe incomprensibile; ma Justine non lo è, e questo crea grande imbarazzo.

Justine è in realtà terrorizzata. Più sente avvicinarsi la fine (Melancholia è ancora un innocuo puntino nel cielo) e più le si fa chiara l’irragionevolezza del suo stare al mondo.

Dopo uno scontro verbale con la sorella Claire, che non comprende la natura del suo spleen, la sposa rimane sola in studio, e sfoga la sua frustrazione sostituendo i libri di Malevic con Bruegel, Millais, Hill e Caravaggio: i pittori d’avanguardia versus quelli senza tempo. Bruegel in particolare è citato in chiave romantica anti-progresso, anti-razionalità, anti-linearità della storia, anti-bellezza classica. La prospettiva rovesciata e l’irrazionalismo tornano anche nella scelta di Wagner e dei Prerafaeliti, come in Shakespeare e Genet che hanno tutti, a vario titolo, a che fare con il film. Si conosce col cuore prima che con l’intelletto, la razionalità è fumo negli occhi dell’istinto emotivo non verbale.

La festa continua, ma la recita sociale si fa sempre più forzata, quasi insostenibile. Justine precipita nell’abisso del vuoto di senso, e dal baratro fa sempre più fatica a guardarsi indietro. Dopo la cena gli invitati escono in giardino per lanciare in volo lanterne di carta ma Justine, alzati gli occhi al cielo per ammirarle, va molto oltre queste fino a perdersi nello sterminato spazio celeste del cosmo, che non può non stordire. La sequenza è di elevato lirismo nella sua semplicità: mentre tutti guardano il contingente Justine chiude gli occhi e coglie la profondità dell’esistenza senza nemmeno osservarla.

“Chi accresce il sapere aumenta il dolore” sostiene l’Ecclesiaste e tutta la gnosi romantica. Solo il grande spirito illuminato, il Buddha che riesce a spingersi oltre l’apparenza percepisce con chiarezza che la vita è dolore, e che è la melanconia il fondamento ultimo di ogni cosa.

Ma l’irragionevolezza dell’esistenza passa per l’irragionevolezza delle convenzioni sociali. Justine non riesce più a stare al gioco della superficialità, e mette in discussione prima il legame di fedeltà coniugale e poi la sua carriera lavorativa, accoppiandosi con uno sconosciuto e insultando pesantemente il suo datore di lavoro.

Justine getta definitivamente la maschera di ipocrisia che ha indossato forzatamente sin ora e tutti iniziano ad odiarla. Justine non è felice, e la verità è insopportabile.

Come la Justine di Sade, l’Ofelia di Shakespeare, ma anche l’arcano dell’Appeso nella tradizione dei tarocchi, la Justine di Lars von Trier è ancora una volta la vittima sacrificale degli eventi, il martire in odore di santità (“Justine cez moi” avrebbe detto Lars a Sade) presente come topos ricorrente in quasi tutta l’opera del regista danese.

La festa finisce. Gli invitati, sposo incluso, lasciano in silenzio il castello in cui rimangono solo la famiglia di Claire e Justine, che passa la notte nello studio circondata dalle foto dei suoi dipinti preferiti.

Il film ora verte su Claire.

Claire fa da cerimoniere e da confessore; la riuscita del rito sociale è quasi un fine in sé, che deve compiersi indipendentemente dalla volontà dei celebrati.

Claire accudisce la sorella, la compatisce perché “malata” ma la ama profondamente.

Nella seconda parte del film, in un dialogo proprio tra lei e suo marito viene finalmente allo scoperto l’argomento Melancholia. Ora il male che avvolgeva Justine ha un nome e una forma: c’è un pianeta che sta attraversando il sistema solare; gli scienziati prevedono che passerà molto vicino alla Terra ma sono discordi sul fatto che in fine la colpirà. Anche Claire teme che la stella possa essere maligna ma sinora ha preferito rimuovere completamente la questione.

L’utilizzo dell’elemento retorico Melancholia è molto efficace dal punto di vista narrativo e fecondo di implicazioni paradigmatiche. Il pianeta Melancholia è una figura retorica operante a più livelli: simboleggia la morte, la sofferenza e l’insensatezza della vita. Esso è di colore blu come il sentimento di tristezza, depressione e malinconia nella lingua inglese. E’ al tempo stesso una metafora, una sineddoche, un’iperbole e un’allegoria le cui polivalenze allargano continuamente la portata semantica del film. Se il monolite di Kubrick è il “significante puro”, il pianeta Melancholia è il “significato puro” che racchiude in sé una moltitudine frattale di tropi collegati tutti in ultima analisi alla Verità dell’esistenza.

La malinconia che avanza non è solo quella di Justine o di Lars ma quella dell’umanità tutta. Sono infatti almeno tre, oltre quello testuale, i livelli di lettura del film.

Come una tragedia greca Lars mette in scena le proprie paure, che poi sono le paure ancestrali del genere umano, per esorcizzarle. Il terrore della morte e l’angoscia per l’inesorabilità del destino stanno anche qui per essere sublimati nell’opera d’arte tramite la loro elevazione estetica.

L’apatia di Justine è divenuta nel frattempo paralizzante. Il suo malessere tocca l’apice: non mangia, non si lava, non apre gli occhi; cade in un mutismo quasi totale, interrotto solo dalle grida di dolore e da qualche sussurro. La morte l’ha avvolta interamente, e anche il suo piatto preferito ha il sapore della cenere.

Il marito di Claire rassicura moglie e figlio che Melancholia farà solo un breve passaggio nell’orbita terrestre e scomparirà senza provocare danni, ma Claire si fa sempre più sospettosa ed inquieta perché riconosce che Justin “sa le cose”, e che le sue intuizioni, come nel gioco della conta dei fagioli, si rivelano puntualmente esatte.

Dopo fasi di rabbia, sconforto e depressione Justine arriva allo stadio dell’accettazione (vedi l’elaborazione del lutto in Elisabeth Kübler Ross). Il personaggio, interpretato da una sconfinata Kirsten Dunst, accetta la spaventosa realtà della fine e vede migliorare gradualmente anche i sintomi del suo malessere.

A questo punto alcune immagini del prologo ci appaiono chiare: Justine si immerge nel ruscello e si riconcilia con la natura lasciandosi trasportare dalle onde del destino e della causalità. Alza le mani al cielo e i filamenti elettromagnetici che le compaiono sulle sue dita sono quasi un collegamento fisico e spirituale con l’universo. Justin è entrata in sintonia con la storia e sta per diventare una cosa sola con il cosmo.

Melancholia si avvicina sempre più, il suo percorso è ormai certo. Il marito di Claire non può più negarlo a se stesso e trova nel suicidio la strada più immediata. Vivere con la consapevolezza della morte per lui, come per molti, era insostenibile. Claire vinta dal panico fugge verso il paese, ma si blocca nel luogo metafisico della diciannovesima buca di un campo da golf che ne ha solo diciotto.

Anche suo figlio, il piccolo Leo, ha ormai capito che il pianeta non li risparmierà, ma l’amata zietta “spaccacciaio” non usa un inganno per rassicurarlo, gli dice semplicemente di non avere paura. E’ questa la chiave del messaggio che Lars manda al suo pubblico: siamo tutti destinati a vivere una vita piena di dolori e priva di significato, ma ugualmente non dobbiamo averne paura.

Melancholia è sorprendentemente simile al masso da un milione di pud cui parla Kirillov ne I Demoni. Quando si sta sotto la grande pietra si ha paura, ma il masso in sé non fa alcun male; è il timore che il masso cada a terrorizzare. Nel masso non c’è dolore, il dolore è tutto nella paura. Non sono le cose in sé che ci addolorano, ma l’opinione che noi abbiamo di esse sosteneva Epitteto.

Il masso, nell’allegoria di Dostoevskij, è come la vita che si concede a prezzo di dolore e sgomento; solo l’uomo che non ha paura di morire può uccidere l’inganno e trascendere la sua natura. “Io sono terribilmente infelice perché temo terribilmente” scrive Dostoevskij, “la paura è la maledizione dell’uomo”.

Melancholia rappresenta in questo caso lo sconforto, non la morte. Perché è la tristezza ad ucciderci, ancor prima del tristo mietitore.

Justine svela quindi al nipote che c’è un posto dove potersi rifugiarsi nell’attesa della fine, non un posto dove sopravvivere alla catastrofe, ma un luogo dove non avere paura di essa: la grotta magica.

Lars ora prova a darci un indirizzo morale ed estetico, un modello filosofico per venire a patti e convivere con l’assurdo.

Come il nazismo, che nella sua follia omicida ha prodotto perle come Heidegger, Speer e Riefenstahl, il nonsense della vita è mostruoso ma anche sublime. Il sublime (spiegano Burke, Schopenhauer e il romanticismo tutto) in quanto piacere che si prova osservando la potenza o la vastità di un oggetto che potrebbe distruggere chi lo osserva, è il sentimento che più ci collega al mistero dell’esistenza.

L’unico modo per affrontare il nonsense è quindi, come una sublime opera d’arte, ammirarlo, lasciarsi sedurre da esso, goderne, come fa Justine quando si porge nuda al calore radioattivo di Melancholia.

Justine cavalca la tigre dell’incomprensibile, morde il serpente dell’eterno ritorno e gode della fine di tutto, ma non nel modo affettato e inautentico proposto in ultima istanza da Claire. Justine attende la morte senza isterie con la grazia che gli è propria, riuscendo a creare un rito inedito con cui esorcizzare l’inconoscibile.

La grotta magica non è altro che una capanna fatta da pochi ceppi di legno incastrati alla meglio. Non è gran cosa, ma è quanto di più utile e raro ci sia. Se Lars è Justine la grotta magica è il suo stesso film, la sua produzione artistica, l’arte e la cultura in generale che, incastrando goffamente segni, crea pericolanti strutture di senso; narrazioni ridicole di fronte al mistero della vita, eppure quanto di più prezioso disponiamo.

Il regista non poteva creare metafora più proporzionata: i mezzi con cui l’uomo cerca di comprendere l’esistenza sono del tutto inadeguati, come lo è un instabile riparo di legno di fronte al pianeta che sta per polverizzarlo; ma nonostante questa inadeguatezza la poiesis, la creazione culturale resta in grado di offrire un rifugio almeno emotivo al terrore dell’ignoto.

Quello che fa Justine è morire con eleganza, e lo fa trasformando la straziante attesa della fine in un gioco.

Lars ci dice che se Dio è morto, le cerimonie sacre sono però ancora necessarie. I rituali magici e le celebrazioni sono sempre state le risposte dell’uomo alla paura della morte, i suoi tentatitivi di mettere ordine e interpretare il caos. Ora questi riti non saranno più il battesimo o la messa, in cui abbiamo smesso di credere, ma cresceranno in seno alla letteratura, alla musica, al teatro, al cinema. Saranno le arti ed i giochi a sostituire filosofia e religione, perché l’arte è, in definitiva, il luogo dell’apocatastasi; il gioco è la grotta magica dove poter ingannare il tempo e attendere la morte senza timore.

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